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La solitudine

Lauro Messori 1990


Non so esattamente quando tu, “mio vecchio amico”, fossi capitato con la famiglia da queste parti, ad abitare in mezzo alla Geminiola; vi erano arrivati si e no i fili della luce ed i tubi dell’acquedotto. Ma la terra era sempre grama: grigia e dura e percorsa da crepacci durante l’estate, e così appiccicosa durante l’inverno che non te la toglievi più dalle scarpe. I campi più a nord, dove abitavo io appena fuori dalla Geminiola, per contrapposizione erano chiamati “terreno bianco”.


Tu eri venuto a lavorare la terra, io allora facevo il liceo. Dovevamo avere qualcosa che ci accomunava, ma non ci siamo mai frequentati come veri amici; ci si incontrava sempre casualmente ed allora facevamo lunghe chiacchierate sugli argomenti più disparati e quasi sempre di carattere culturale: dalla letteratura, al cinema, alla pittura. Ed in quelle chiacchierate avevo modo di scoprire quanta voglia di apprendere c’era in te, di studiare, di sapere, e quanti sogni!


Ci si incontrava per lo più a S. Biagio alla Messa, però quasi solo nelle grandi ricorrenze: Natale, Pasqua, la Sagra di S. Luigi… Tu eri un po’ tiepido in fatto di partecipazione religiosa, ma non eri il solo. Del resto in quell’epoca la maggior parte di chi andava a messa assisteva passivamente ad un rito fatto di un frasario latino che nessuno intendeva, nemmeno quelli, forse per una forma di pigrizia mentale, che il latino se lo studiavano a scuola.


E gli uomini ed i giovani in piedi, tutti ammassati in prossimità della porta, come se i banchi fossero riservati ai bambini del catechismo ed alle donnette, in attesa della formula magica: “Ite Missa est”, che consentiva di precipitarsi fuori dalla chiesa.


Era dopo quella fuga che c’incontravamo sotto il portichetto e scambiavamo due chiacchiere; poi ognuno riprendeva la sua bicicletta e facevamo un pezzo di strada insieme fino alla congiunzione della Via Fossa Faiella con la Via S.Martino e di là le nostre strade si separavano.


Io mi stupivo come un autodidatta come te potesse conoscere tante materie: dalla storia alla filosofia, dalla letteratura alle diverse espressioni delle arti figurative. Una conoscenza a volte frammentaria, a volte profonda. Ricordo che frequentavi un circolo culturale del paese vicino dove ti approvvigionavi di libri che leggevi nel tempo libero dal lavoro dei campi.


Un giorno venni a sapere che ti dilettavi a scrivere. A quell’epoca io avevo già terminato gli studi, vivevo a Milano e venivo a trascorrere da queste parti soprattutto le grandi ricorrenze. Fu in una di quelle occasioni che tu mi desti un pacco di fogli dattiloscritti da leggere: forse semplicemente per rendere qualcuno partecipe di un tuo lavoro o forse con la segreta speranza di riceverne un incoraggiamento.


Non ricordo cosa ti dissi quando ti restituii quei fogli, dopo averli letti, però mi rammarico di non aver fatto gran che, oltre che leggerli e restituirli e penso che anche quegli scritti valessero molto di più di quanto la mia presunzione di allora potesse apprezzare.


Tanti anni dopo avrei capito quanto tu fossi solo e come quegli scritti potessero essere un tentativo per evadere da una realtà che non accettavi. Il tuo desiderio di imparare ed il tuo animo sensibile ti avevano estraniato dal duro mondo contadino a cui appartenevi, ma non avevi trovato nessun altro mondo a cui aggregarti e la tua conoscenza acquisita ti rendeva sempre più solo. Consegnandomi quei fogli avevi tentato di inviarmi un messaggio; ma io non l’avevo recepito. Io ero forse una delle poche persone, che per qualche affinità di carattere, avrebbe potuto darti una mano a trovare una tua collocazione nella vita, ad uscire dal tuo isolamento. Ma questo allora non l’avevo capito: Forse ero troppo intento a seguire chissà quali chimere, lontano da qui ed in giro per il mondo, per dare ascolto alla timida richiesta di un giovane contadino di Geminiola….


Ora quindi non mi resta che rammaricarmi di non aver mai trovato un punto di incontro che potesse approfondire la nostra amicizia al di là di un rapporto superficiale nel quale per lo più entravano solo argomenti di conversazione riguardanti la letteratura, arte e cinema: troppo seri e troppo poco per ragazzi della nostra età quali allora eravamo.


E intanto la fine degli studi ed il lavoro mi avevano allontanato sempre più dai vecchi amici e dal mio vecchio mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Così avevo perso i contatti anche con te, e non avevo più la percezione di ciò che succedeva o poteva succedere da queste parti. Forse un giorno in occasione di una mia fugace visita a S. Biagio qualcuno mi disse che tu eri ammalato e forse io non diedi molta importanza a quella notizia. Poi, qualche tempo dopo venni a sapere che tu eri morto; avevi poco più di trent’anni.


Com’era potuto accadere tutto questo, senza che me ne rendessi conto? Credo che allora non avessi pianto, ma ora che son trascorsi tanti anni, al ricordo, mi prende un nodo alla gola.


Ti ripenso, poeta-contadino, solitario, rimasto forse ancor più solo allorché io me n’ero andato lontano e non avemmo più l’occasione di incontrarci a S. Biagio e di percorrere in bicicletta un pezzo di strada insieme. Ripenso al tuo sorriso un po’ triste ed a ciò che possono essere stati gli ultimi giorni della tua vita, quando forse la mano di un amico avrebbe potuto alleviare, almeno in parte, la tua sofferenza.


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